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17 giugno 2010

Razzismo teatino


Dopo qualche giorno senza accesso al computer pensavo di ritornare sul blog con qualche proposta per gli studenti universitari (anche per raccogliere la sollecitazione avuta dal commento di una studentessa) però quello che avrei voluto scrivere è superato dagli avvenimenti: come si fa a parlare di accoglienza mentre accadono cose che ci collocano ai confini della civiltà, ci fanno piombare in un regime di apartheid che ormai non esiste più neanche in sudafrica. Mi riferisco al terribile episodio riportato da Chietiscalo.it (l'articolo è qui). Si tratta di un fatto gravissimo. In tutte le città possono accadere fattacci; ogni giorno la cronaca racconta episodi di violenza, abusi, ecc. ma qui non possiamo relegare il fatto ad una mera accidentalità: stiamo parlando dell'istituzione municipale, stiamo parlando dell'ufficio che rappresenta la collettività di fronte ai nuovi arrivati in città, stiamo parlando di una persona che non vive in una fattoria della Carolina del Sud, ma di un pubblico ufficiale che sta tutti i giorni tra i cittadini.




Trattare lo studente universitario che si presenta all'ufficio per regolarizzare la sua posizione allo Stato Civile come se fosse un appestato e sbattergli in faccia il proprio viscerale razzismo che arriva ad anteporsi agli stessi doveri d'ufficio è un fatto vergognoso. Anche a me piacerebbe poterlo imputare unicamente all'ignoranza civile, morale e cristiana dell'impiegata, ma purtroppo non è possibile perché non si tratta di un diverbio da marciapiede. Inoltre a Chieti basta rendere noto il fatto per trovarsi sotto accusa: propaganda di sinistra, strumentalizzazione, faziosità... Le stesse accuse rivolte anche a me quando ho dato la notizia della lapide rotta. Anche nel caso recente del raid alla sede dell'associazione Free Speech sono scattati subito i cordoni sanitari: gesto isolato, privo di significato politico, ecc. ecc.

Sembrano reazioni istintivamente protettive. Forse non è una protezione intenzionale, forse è solo un modo per prendere le distanze, ma come possiamo credere che l'associazione libertaria o la memoria delle vittime del nazi-fascismo o la sede di rifondazione comunista sono obiettivi casualmente scelti da teppistelli comuni. Davvero si può pensare che un'identità di gruppo basata sul saluto romano, sul razzismo riproposto come fondamento culturale e sulla violenza come strumento d'affermazione della volontà siano equivalenti alla maglietta di Dolce e Gabbana o al bullismo che si esaurisce da solo col maturare dell'età?

Quanti e quali episodi si devono verificare per prendere coscienza di una cultura della discriminazione e dell'odio che ristagna nella nostra città. Oggi sta crescendo ovunque un nuovo odio di razza, un ritorno alla violenza omofoba, alla caccia al barbone e al rom che si spinge fino al puro disprezzo del lavoro. La destra (se esiste una destra democratica in Italia capace di accettare le garanzie liberali e i valori autenticamente cristiani) deve produrre anticorpi, deve reagire con grande energia contro questi veleni dell'anima. Invece spesso accade il contrario: reazione zero. C'è una destra che si dichiara democratica e tuttavia minimizza, tende a rimuovere il problema e arriva anche ad attaccare chi denuncia i fatti più eclatanti.

In Italia manca un confine chiaro tra destra democratica e destra autoritaria che invece vediamo negli altri paesi europei. Tali ambiguità creano il rischio di fascistizzazione di tutta la destra. Se le doverose prese di posizione contro il razzismo e il fascismo sono lasciate agli esponenti di sinistra e della sinistra più radicale, l'odio non trova più argini, perché l'argine posto in fondo, dove non serve più, viene perfino scambiato per faziosità.

Le guerre tra poveri scatenate da una crisi pesantissima di cui nessuno riesce a vedere una vera uscita può far precipitare il problema. Una rabbia razzista è già diffusa nelle tifoserie calcistiche, spesso usate come scuole di violenza. La Lega Nord sta passando dalla xenofobia alla propaganda dichiaratamente anti-italiana che ricorda terribilmente la deriva jugoslava verso la guerra civile. Un clima crescente di odio rende inutile ogni discorso sull'accoglienza.

Prima di poter parlare di accoglienza ci sono problemi più gravi e profondi da risolvere. Chieti è in prima linea. Chieti ha avuto per anni un sindaco che usava la parola "democratico" come se fosse un insulto. Ciascuno è libero di avere l'opinione che vuole, anche la democrazia può essere criticata, ma la parola pubblica di un sindaco è anche la voce della città. Non è solo intemperanza personale. Così è per l'impiegato che riceve il pubblico negli uffici del Comune. E' tutta la città che deve interrogarsi.

Se non si rimuovono questi ostacoli attraverso un profondo esame di coscienza ogni ragionamento sul turismo, sull'arte, sull'università e sulla rinascita di Chieti resta solo un vuoto parlare.

Mi chiedo se non sia possibile promuovere incontri pubblici, come è stato fatto per la questione nucleare. Si dovrebbero coinvolgere gli impiegati razzisti, i nostalgici di quando si stava peggio, i gruppi giovanili che nutrono odio verso i "pescaresi zingari" o quelli che tentano di trovare la propria identità nelle nuove forme di squadrismo. Un'amministrazione di destra potrebbe avere più possibilità di aprire un dialogo con queste persone. Dev'essere un dialogo educativo finalizzato a rimuovere gli ostacoli "culturali" e psicologici che ci impediscono un vero progresso civile, sociale ed economico della città.

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